GIORNO DI PASQUA 2020- di Franco Causarano
Domenica di Pasqua a Scicli. La tentazione è forte: vado, non vado; esco o rimango in casa? Dalla finestra il sole si annuncia con la luce, che solo in occasione della Resuscita, sa dare l’invadenza e la varietà indefinita di colori. Penso per l’intera mattinata, e la voglia di andare mi prende sempre di più. A mezzogiorno esco, d’obbligo la mascherina, mi incammino per strade secondarie, evito i lunghi sensi unici, ogni tanto un incontro visivo, qualche auto a rompere il silenzio. Allungo per i bastioni del torrente senza acqua, battendo la camminata sulla strada di pietra cuticchia. Evito la via principale per salire alla chiesa, vi arrivo dalla San Filippo, stradina dalle misure e dai cenni mediovaleschi, passando sotto piccoli balconi panciuti; ogni tanto alzo lo sguardo a salutare con gli occhi strane teste di turchi o semplici putti. A mezzogiorno e mezzo sono ai piedi della scalinata che introduce al semicerchio di basole, davanti alla Chiesa, chiusa anche in questi giorni per ripararsi dal contagio. Sono solo, ma mi accorgo che sui balconi qualcuno sta seduto ad aspettare. Aspetto anch’io, in piedi sulla destra, sotto il balcone dei Pisani, come è mia abitudine ormai da oltre vent’anni.
Un quarto d’ora ancora a non far niente. Ad aspettare. Guardo la strada in direzione della Consolazione, c’è un certo movimento e comincio a sentir un lieto suono di banda. Ad un tratto la strada prende ad ospitare gente, e il corteo si ingrandisce a mano a mano che la musica si fa più forte: ma si! è il Venerabile che si incammina per Santa Maria La Nova, con processione che avanza e si allarga ai lati. Dieci minuti ancora e il baldacchino con i suoi portatori: riconosco il prof. Luigi Scapellato, il dott. Inclimona, il Commendator Mirabella, Giovanni Liuzzo; e a seguire i confrati con le loro fasce color celestino. Il prete e il Santissimo, mi passano davanti. L’omaggio con lo Stennardu, l’applauso e la preghiera cantata. Il portone della chiesa, come per un tacito ordine, si apre all’improvviso dall’interno. L’attesa adesso è tutto un vociare di facce di amici e conoscenti, di saluti e cenni di mano, insomma la grande famiglia paesana che si ritrova puntuale la Domenica di Pasqua. Che festa!
Mi raggiungono, nella postazione a me cara, Angelo e Carmelo. C’è un muoversi incontrollato di gente che vuole trovare il giusto posto per l’uscita del Gioia. Vedo passare Gigi che per una volta l’anno preferisce i giri di danza al limite della Vara, piuttosto che fotografar paesi e paesaggi a bordo di elicotteri; e con lui Maioli, Mania e Pellegrin a cogliere gli attimi fuggenti. Appartati ma visibili anche i fratelli Santospagnuolo e i Carbonaro. L’attesa si fa movimento di teste e di strette di mano, di sorrisi e parole augurali. La banda prende posizione, e ancora volti e sorrisi di una vita mi passano davanti: Emilio (si, il Cuffaro dei nostri vent’anni) con il papà, don Giovannino sindaco a furor di popolo della Stradanuova, e don Vartuliddu virtuoso del mandolino, il signor Livia, don Vicinzinu, don Giurgiu. Qualcuno comincia a richiamare la banda con il battere di un nome: Bu sa cca, Busacca; sarà l’inconfondibile marcia musicale che ci accompagnerà in città fino a notte fonda.
Nell’aria sale la frenesia e dal di dentro della Chiesa i primi vociari di gioia, poi un inspiegabile e impercettibile silenzio, così da accompagnare la Statua che avanza, il vessillo, la raggiera, il volto: GIOIA, GIOIA, GIOIA…scoppia la musica ed è un gridare di felicità dal profondo del cuore, gioia pura, di batter le mani e danzare insieme ai portatori. “Un clamore s’era alzato dalla città- mi viene subito di ricordare le parole scritte di Elio Vittorini- insieme a centinaia di gazze…accadde che esplosero le cinquantamila mani della folla di cui brulicava la piazza; allora lo strepito delle cornacchie fu anche di fanciulli, e di trombette e fischietti ch’essi suonavano”. E il campanone che non si ferma più.
La statua prende il cammino a scendere, verso il centro; sono coloro che tengono le due vuccole a indicare il percorso della festa. Lì c’è gente di polso, i Carbone, Arrabito, Manfrè. Così la prima è una girata a sinistra, a volteggiar lungo la Cava; ed è un tambureggiare di maschiata, dall’alto del colle San Matteo. Poi la processione prende un ritmo più leggero, è quasi un ondeggiare tra le fiancate di case e palazzi, con i petali di fiori che vengono lanciati in aria da balconi e terrazze, da mani di donne d’ogni età; all’altezza della chiesa che dal ‘400 consola la gente di Scicli l’accostamento della Vara al bastione; qui l’omaggio semplice e sincero di una popolana, Donna Stella, che svuota come se lo suonasse un canestro di petali di rose, con il Cristo che sembra gradire, sorridente, tanta festa. Ancora cinquanta metri e la fermata sotto le rovine del Palazzo che fu un tempo degli Inclimona. Anche qui fiori dal tetto scoperto: vedo il buon dott. Nzuliddu calare il tradizionale mazzo di garofani rossi. E subito la rincorsa verso il Carmine. Attorno alla piazza i primi giri di saluto e di danza; su uno dei balconi di Palazzo Scimone mi par di scorgere, caro alla città, il direttore di musiche vivaldiane, il Maetro Claudio; si fa fitta la folla che scende dal Torrente coperto o che sale dalla Mastranza di sotto, ma i portatori si fanno a ragione la loro strada, incoraggiati dal ritmo sempre più incalzante della Marcia di Busacca. Davanti alla Chiesa dei Carmelitani, due parroci storici della festa, don Patanè e don Paolo Ruta. Il primo sembra aver voglia di rallentare la corsa dei portatori, preoccupato che il Cristo si faccia male, il secondo invece segue con il suo proverbiale “sorriso di Dio”. Quando all’improvviso lì sul Piano laterale della Chiesa la giostra dei mortaretti e delle micce a sorpresa dà il benvenuto alla Statua; da poco lontano una musica strana, che avanza nel suono e nel volume. Parla del “Padreterno che l’aveva abbandonato, ma ora i paesani se l’hanno accompagnato, che grande festa poterselo abbracciare, che grande festa portarselo a mangiare” e poi ancora “è pazzo di gioia, è l’Uomo Vivo”. La musica è sempre più forte e le parole arrivano alle orecchie, impetuose come un vento di tramontana “barcolla traballa sul dorso della folla, fino a che arrivi in cima, fino al ciel, fino a che veda il mar..Fino a che veda che bellezza è la vita e…”
Mi sveglio quasi di soprassalto, preso ancora dal ritmo e dai versi. Sono nel mio letto, nella stanza che dà a levante. La musica viene da fuori. Da un balcone di fronte. E’ il mio vicino di casa che saluta il giorno di Pasqua, al tempo del coronavirus, con una delle più belle canzoni di Vinicio Capossela.
Franco Causarano